Gli Internati Militari Italiani nella Germania nazista

internati militari italiani

Introduzione

La data otto settembre 1943, nella storia italiana, è diventata sinonimo di ‘tragedia’, ‘tradimento’ e ‘fuga’. Quel giorno l’Italia chiese l’armistizio agli anglo-americani e mise fine all’alleanza con la Germania. I soldati italiani vennero così in buona parte catturati dalle armate tedesche che intimarono loro di combattere al loro fianco; oppure sarebbero stati internati nei lager presenti in Germania e in Polonia. Venne così creata la definizione Internati Militari Italiani (I.M.I.), volta a identificare soldati che non potevano neanche ambire allo status di prigionieri di guerra. Ma unicamente  dei meri ingranaggi della mostruosa macchina nazista che aveva già schiavizzato, per i propri fini perversi, milioni di sventurati. Sovente riferendosi alla popolazione dell’universo concentrazionario nazista si intendono i prigionieri di guerra e i deportati per motivi politici oppure razziali. A loro devono essere aggiunti gli Internati Militari Italiani, i quali erano segregati in quelle condizioni disumane in quanto rifiutavano di imbracciare le armi dalla stessa parte dei nazi-fascisti. Consci che sarebbe stata sufficiente una loro dichiarazione di fedeltà al Fuhrer per essere liberati e, molto probabilmente, poter ritornare in Italia.

Antefatti

Nel 1943 la visione rispetto al conflitto di buona parte degli italiani era ormai totalmente opposta a quella dei tedeschi. I primi ritenevano che fosse inutile proseguire nei combattimenti in quanto ogni possibilità di vittoria era ormai svanita, pertanto auspicavano una resa che risparmiasse ulteriori sofferenze. I secondi, al contrario, erano determinati nel continuare a resistere contro eserciti sempre più poderosi, quasi incuranti delle pene atroci che stavano soffrendo.

I tedeschi, ancora confidenti nelle promesse di vittoria del Fuhrer, in seguito all’armistizio dell’otto settembre condensarono la loro rabbia per il comportamento dell’ex-alleato imputandogli l’accusa di tradimento. Il paese era completamente esausto e prostrato, pertanto non vi era più alcuna ragione nel continuare un conflitto contro un nemico ormai imbattibile. Di conseguenza, in seguito all’armistizio, i militari italiani avrebbero dovuto essere considerati dei soldati che obbedivano lealmente al proprio governo. Invece i tedeschi li privarono delle tutele garantite dalle norme del diritto internazionale. Facendo in modo che l’odio rivolto nei loro confronti determinasse la morte di un gran numero di questi internati. Uccisi dai carcerieri, dalle malattie, dalla denutrizione e dalle sevizie.

Il rancore e il disprezzo erano ulteriormente accresciuti dalla propaganda anti-italiana scatenata, in seguito all’otto settembre, dal gerarca nazista Joseph Goebbles. Dalle ricerche degli storici è emerso che gli italiani avevano già subito un declassamento addirittura prima dell’armistizio. Infatti l’Ufficio Razziale del partito nazista aveva proposto di vietare i matrimoni tra i cittadini delle due nazioni per evitare, secondo la sua logica, che il sangue ariano ne risultasse contaminato. Le relazioni sentimentali tra italiani e donne tedesche erano definite “razzialmente indesiderabili” e avevano delle gravi ripercussioni.

L’otto settembre 1943, coloro che avevano responsabilità di governo (Presidente del Consiglio, Sovrano, Stati Maggiori) abbandonarono le unità militari prive di qualsiasi direttiva certa. Lasciando a ufficiali educati all’obbedienza la responsabilità di assumere decisioni di alto livello. Proprio dalla memorialistica si desume quali furono, in quei giorni confusi, le diverse reazioni:

  • valorosi atti di strenua e disperata resistenza;
  • rese incondizionate;
  • fughe rovinose;
  • accordi controversi con i tedeschi.

Nei territori balcanici e nell’Egeo, svariati soldati credettero ingenuamente che per l’Italia la guerra fosse terminata. Furono a tal punto fiduciosi da credere che i tedeschi, stipandoli nei carri ferroviari, li volessero accompagnare verso le loro case. I meno sprovveduti intuirono le crudeli intenzioni e cercarono la salvezza unendosi alle formazioni partigiane dei paesi in cui, fino al giorno prima, erano stati degli invasori. Terribilmente sprovveduti, oppure vergognosamente colpevoli, furono alcuni ufficiali superiori che ordinarono ai loro reparti di deporre le armi e consegnarsi agli ex-alleati, violando oltretutto i principi dell’onore militare.

Tra la memorialistica, a cui fare riferimento per conoscere meglio quei tragici momenti, vi è anche quella di illustri scrittori che conobbero personalmente il dramma dell’internamento. Su questa tema sono noti il “Diario Clandestino” di Giovannino Guareschi e alcuni racconti di Mario Rigoni Stern.

Giovannino Guareschi
Giovannino Guareschi

Cattura e deportazione

 

Occorre tenere in considerazione le particolari condizioni in cui i soldati italiani, dopo l’armistizio del 8 settembre 1943, vennero a trovarsi. Reparti in buona parte non completamente efficienti, a causa dei pesanti rovesci subiti durante il conflitto, si trovarono ad affrontare, in completa autonomia, soldati ben armati e inquadrati. Quest’ultimi non avevano alcun dubbio su quali fossero gli obiettivi da conseguire: catturare i militari italiani e requisirne le armi. Difficilmente rimediabile era il frangente in cui vennero a trovarsi i soldati italiani stanziati all’estero (Francia, Balcani e Grecia), in quanto anche l’opzione della fuga era difficilmente attuabile. Pur se avessero indossato degli abiti civili si sarebbero comunque trovati sperduti in una nazione di cui difficilmente conoscevano la lingua.

Nelle regioni settentrionali della penisola le operazioni di disarmo vennero svolte dalle truppe condotte da Erwin Rommel. Il feldmaresciallo, da profondo conoscitore della psicologia del soldato, seppe approfittare agevolmente del crollo morale e dello scompiglio in cui erano precipitati i reparti italiani. Tuttavia in alcune città quali Gorizia, Trieste e Cuneo dei soldati seppero opporsi con decisione alla consegna delle armi. Mentre a Torino e a Milano i reparti tedeschi vennero addirittura attaccati da gruppi di civili in rivolta. In questo modo ebbero origine i primi embrioni delle formazioni che in seguito costituirono il movimento resistenziale. Militari riottosi a farsi disarmare e giustamente diffidenti delle lusinghe tedesche, guidati da ufficiali devoti al giuramento prestato, si unirono a civili pervasi da sentimenti patriottici e anti-fascisti.

A Roma le unità tedesche erano poste al comando del feldmaresciallo Albert Kesserling. Si scontrarono con la tenacia di alcuni reparti che, oltre a mantenersi coesi, guadagnarono anche l’appoggio di alcune centinaia di civili. Tuttavia l’abbandono della capitale da parte del governo, della famiglia reale e di parte dello stato maggiore smorzò ogni velleità di una valida resistenza.

Nei Balcani e nell’Egeo gli ufficiali che ordinarono ai loro reparti di opporre resistenza vennero in buona parte giustiziati dai tedeschi tramite fucilazione. Tale rappresaglia violò non solo le normative internazionali in ambito bellico, ma anche le consuete leggi di guerra. Le quali prevedono che un soldato abbia il pieno diritto di difendersi nei confronti di chiunque intenda disarmarlo.

 

Durissime condizioni dell’internamento

Il fatto che i soldati italiani venissero considerati internati militari e non prigionieri di guerra era un escamotage giuridico. In questo modo erano privi delle tutele della Convenzione di Ginevra. A cui avevano diritto i prigionieri di altre nazionalità quali i britannici, gli americani e i francesi.

internati militari italiani
internati militari italiani

Nei campi d’internamento taluni I.M.I. ripetevano mestamente l’adagio che la razione distribuita era troppo scarsa per poter riuscire a vivere, ma non abbastanza misera per indurre la morte. Tramite tale affermazione evidenziavano come la grave denutrizione li relegava in uno stato continuamente sospeso tra la vita e la morte. Una condizione in cui , in molti casi, i primordiali istinti di conservazione dominavano la componente razionale di questi uomini. Di conseguenza molti assumevano comportamenti di cui si sarebbero vergognati in altre circostanze. Il grave livello di sottoalimentazione, annullando le difese del sistema immunitario, rendeva i loro corpi vulnerabili a molte malattie.

I prigionieri italiani erano tra quelli peggio alimentati e, di conseguenza, la grave debilitazione dovuta alla denutrizione li rendeva poco produttivi al lavoro. Paradossalmente, come misura punitiva, il rancio veniva ulteriormente ridotto determinando, così, un tragico circolo vizioso che in molti casi comprometteva la sopravvivenza dell’internato.

Particolarmente difficoltoso risultava stabilire rapporti con i prigionieri di altre nazionalità. Nonostante gli ostacoli linguistici gli internati con i quali, a volte, si riuscivano a instaurare dei legami erano quelli polacchi e russi. Entrambi i popoli erano considerati dai nazisti alla stregua di sub-umani e le loro condizioni di prigionia erano ancora peggiori di quelle degli italiani.

Con i francesi, invece, i rapporti erano pessimi in quanto non avevano ancora perdonato l’ aggressione del giugno 1940. Quando Mussolini aveva dichiarato guerra alla Francia nel momento in cui era palese che le armate transalpine, ormai, erano state completamente sbaragliate dalla guerra lampo tedesca. Gli inglesi e gli americani rappresentavano praticamente i “privilegiati” dei campi di prigionia. Essendo tutelati dalla Croce Rossa Internazionale ricevevano pacchi viveri. Inoltre i tedeschi stessi permettevano loro di mantenere un atteggiamento che non sarebbe stato perdonato a prigionieri di altre nazionalità.

Di solito la sorveglianza degli internati era di competenza dei battaglioni territoriali (Landesschutzenbataillonen). I quali arruolavano principalmente soldati che per motivi di età, oppure di salute, erano dispensati dal fronte. Gli internati raccontano che i più spietati erano i carcerieri che avevano riportato delle mutilazioni in guerra, presumibilmente desiderosi di rivalersi del loro dramma personale. Inoltre taluni memoriali evidenziano come la rabbia dei guardiani crebbe sensibilmente in seguito alla liberazione di Roma e allo sbarco degli anglo-americani in Normandia, prodromi della fine del Terzo Reich. I racconti autobiografici degli I.M.I riportano che i lavoratori civili tedeschi, nei loro confronti, mantenevano di solito un atteggiamento di indifferenza e distacco. Però sono  da segnalare delle eccezioni in cui qualcuno dette prova di  umanità. Infatti nelle aziende agricole, condotte in massima parte da donne e da anziani, i rapporti con gli internati erano migliori.

Il posto di lavoro, solitamente, era distante da quello di prigionia alcuni chilometri e veniva percorso da uomini che, in massima parte, calzavano degli scomodi zoccoli di legno. Inoltre vi era un tale disprezzo nei confronti dei prigionieri per cui le norme anti-infortunistiche erano pressoché assenti e gli incidenti erano molto frequenti. Una cinica ordinanza obbligava i forzati a proseguire nelle loro mansioni persino durante i bombardamenti. Coloro che tentavano di ripararsi nei rifugi venivano spietatamente respinti.

Mentre i prigionieri di svariate nazionalità (americani, inglesi, francesi e belgi) ricevevano aiuti alimentari da parte della Croce Rossa Internazionale, i sovietici e gli italiani ne erano esclusi. I primi perché il governo di Mosca non aveva sottoscritto la Convenzione di Ginevra, i secondi perché non erano riconosciuti come prigionieri di guerra. Il terribile problema della scarsa alimentazione emerge dai racconti e dai memoriali degli ex-internati. Le razioni di norma erano inferiori a quelle stabilite ufficialmente.  Anche la qualità era molto scadente tant’è che frequente il cibo consegnato era avariato: pane ammuffito e zuppe già fermentate. La distribuzione del rancio avveniva una sola volta al giorno, di norma la sera, e la fame era così straziante da indurre gli internati a consumarlo in un solo pasto. Di conseguenza sopraggiungeva un drammatico digiuno lungo più di venti ore. Con una alimentazione talmente scarsa era difficile far fronte al freddo intenso e agli sfiancanti turni di lavoro.

Avvalendoci di una definizione singolare gli Internati Militari Italiani possono essere considerati “volontari del lager”. In quanto sarebbe stata sufficiente una loro adesione, eventualmente di comodo, al nazi-fascismo per ambire a essere liberati. Nonostante questo possibile escamotage la maggioranza di loro accettò di sopravvivere mestamente quasi due anni nutrendosi con scarti alimentari, tormentati dal freddo e dalle angherie dei carcerieri. Rifiutando così di impugnare le armi contro i propri connazionali e i soldati degli eserciti che stavano sconfiggendo il nazismo.

Il fatto di incontrare nei lager dei prigionieri provenienti da svariati paesi (Francia, Polonia, Russia, Jugoslavia) faceva loro intendere quanto fosse terribile il nazismo. Un’ideologia volta a schiavizzare o addirittura a sterminare tutti i popoli che reputava inferiori.  Questa considerazione era assai condivisa tra gli internati decisi a rigettare qualsiasi forma di collaborazione. Intuivano infatti quale sarebbe potuto essere il nuovo ordine europeo, o addirittura mondiale, all’ombra della svastica. Il rifiuto alla collaborazione, pur essendo dovuto a svariate ragioni, dette origine a un processo di politicizzazione che contribuì, dopo la fine del conflitto, alla nascita di una nazione democratica. Molti giovani italiani, cresciuti completamente plagiati dalla propaganda fascista, dietro al filo spinato iniziarono a riflettere su quanto fosse sciagurato un regime dittatoriale. E sul modo in cui molti abusi potessero essere evitati solamente avviandosi verso una società democratica. Inoltre, nonostante fossero stati educati alla cieca obbedienza verso le gerarchie e il regime, il fatto di dover decidere se collaborare con i tedeschi rappresentò praticamente la prima consultazione elettorale. Alla quale ebbe modo di partecipare quella generazione che, per motivi anagrafici, non aveva avuto l’occasione di conoscere la vita politica dell’Italia liberale.

Alle centinaia di migliaia di militari che scelsero l’internamento, invece di partecipare attivamente alla guerra nazifascista, è stato da molti storici riconosciuto che con tale scelta contribuirono ad abbreviare il conflitto in Europa. Infatti fecero in modo che in Italia la guerra civile assumesse risvolti meno cruenti. Inoltre privò le forze dell’Asse di un cospicuo numero di soldati in un periodo nel quale si stavano predisponendo per opporre agli anglo-americani e ai sovietici un’estrema resistenza.

 

 

Ritorno in patria e oblio

Nel dopoguerra le vicende degli I.M.I., in un’Italia funestata da molte tragedie, suscitarono uno scarso interesse. A tal proposito è emblematico un aneddoto di cui  lo storico Giorgio Rochat venne a conoscenza intervistando un ex-internato.  Ritornato dalla prigionia, il soldato venne interrogato da un colonnello sulle motivazioni che lo avevano indotto a rifiutare la collaborazione con i tedeschi. Invece di essere elogiato per il suo comportamento audace, fu umiliato dalle parole dell’ufficiale che sosteneva di non capire il motivo alla base del rifiuto. Il colonnello reputava illogico che un prigioniero declinasse, con pervicacia, ogni tipo di collaborazione con il nemico nonostante venisse minacciato di essere sottoposto a condizioni di vita sempre più estreme.

Tra gli studi più approfonditi vi sono quelli dello storico tedesco Gerhard Schreiber: “Gli internati militari italiani nei campi di concentramento del Terzo Reich dal 1943 al 1945”. Schreiber, essendo anche un ufficiale della marina tedesca, compromise la propria carriera militare a causa delle posizioni assunte, come studioso, a difesa degli internati italiani.  L’autore, nella sua opera, stigmatizzò come i nazisti si dimostrarono spietati con i Verweigerer (coloro che si rifiutavano di collaborare). La loro crudeltà, infatti, non risparmiava nemmeno i soldati italiani che, negli anni precedenti, erano stati insigniti con decorazioni al valore tedesche. E’ singolare il fatto che sia stato proprio uno studioso tedesco a dedicarsi a un argomento che anche in Germania è sempre stato poco menzionato.

Il fatto che sia ancora oggi dibattuto il numero di I.M.I. è rilevatore del periodo di confusione conseguente all’armistizio del 1943. Oltre allo scarso interesse sul tema nei primi anni successivi alla fine del conflitto.  Le valutazioni dello Stato Maggiore dell’esercito tedesco riportano che l’otto settembre deposero le armi 1.007.000 soldati italiani e furono 725.000 quelli che conobbero la prigionia. Taluni per un breve periodo in quanto optarono per la collaborazione. I calcoli dello storico Gerhard Schreiber invece elevano il numero a 810.000 e, vista l’accuratezza delle sue ricerche, tale cifra sembra maggiormente verosimile.

Il fatto che ai soldati italiani i nazisti non riconoscessero lo status di prigioniero mantenne gli I.M.I. in una condizione ambigua che ebbe delle conseguenze anche al momento della liberazione. Infatti gli anglo-americani e i russi, in concreto, non garantirono agli italiani la parità di trattamento con gli altri ex-prigionieri di guerra. Di conseguenza le procedure per il rimpatrio vennero svolte con estrema lentezza.

I britannici, considerando gli I.M.I. alla stregua di profughi di guerra, li inserirono al fondo delle liste per il rientro in patria. Pertanto molti dovettero ricorrere all’iniziativa personale ritornando con mezzi di fortuna.

Paradossalmente lo status di prigionieri di guerra venne concesso, a conflitto terminato, dalla Repubblica Federale Tedesca. La quale intendeva evitare il pagamento dei risarcimenti di guerra a coloro che erano stati costretti a lavorare per il Terzo Reich. Contro tale vergognoso espediente ci fu un ricorso alla Corte Costituzionale dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. Un ruolo importante, a favore degli I.M.I., venne svolto dal libro della storica tedesca Gabriele Hammermann: “Gli internati militari italiani in Germania nel periodo 1943-45”. Infatti venne dimostrato, tramite le ricerche svolte dall’autrice, che gli I.M.I. erano stati utilizzati alla stregua di lavoratori forzati.

Rientrati alle loro case una ulteriore afflizione degli ex-I.M.I. furono le insinuazioni secondo cui, in Germania, si sarebbero comportati da collaborazionisti. Agevolando così i nazisti nel resistere alle offensive anglo-americane e russe. Il Ministero delle Finanze italiano cerco addirittura di trarre un tornaconto economico da questa illazione. Considerando la possibilità di rifiutare il pagamento del compenso spettante per il periodo in cui, pur come internati, erano stati dei soldati.

Fece scalpore una infelice affermazione di Ferruccio Parri che, evidentemente mal informato, accusò gli internati di aver agito in quel modo per mera pigrizia. Fortunatamente, in breve tempo,  ebbe la possibilità di ravvedersi per l’equivoco e, da grande uomo quale era, si scusò per la grave offesa profferita. Alcide De Gasperi, invece, paventava addirittura il rischio che molti internati fossero stati vittima di indottrinamento da parte dei liberatori russi. Pertanto, al loro ritorno in Italia, potessero essere causa di radicalizzazione del nuovo assetto politico.

Centinaia di migliaia di soldati che tornavano laceri, smagriti e afflitti dall’internamento nei lager tedeschi non riuscivano a far sì che l’opinione pubblica si occupasse, attivamente, del coraggio e dell’eroismo con i quali avevano negato, ripetutamente, la loro adesione alla causa nazi-fascista. Fin dalla classicità greco-romana gli eroi vengono sempre rappresentati fieri, forti e orgogliosi. L’esatto contrario di quegli sventurati reduci, infagottati in uniformi lise integrate dai vari indumenti procacciati durante il loro mesto peregrinare sulla strada del ritorno.

 Italo Calvino descrisse il ritorno a casa degli I.M.I paragonandolo con l’Odissea e rimarcando le sostanziali differenze con le vicissitudini di Ulisse. L’eroe greco era ritornato nella sua patria, la quale non aveva conosciuto la tragicità della guerra in quanto il conflitto raccontato da Omero si era svolto sotto le mura di Troia. Invece l’Italia, al contrario di Itaca, aveva vissuto le estreme sofferenze dovute al conflitto. Pertanto molti internati si rinchiusero in un accorato silenzio consapevoli che i racconti delle loro disavventure non avrebbero avuto molti ascoltatori interessati. Poiché quasi tutti gli italiani avevano assistito oppure vissuto direttamente tragici episodi della guerra.

Responsabili di questo silenzio furono anche le istituzioni militari. Le quali erano propense a non prendere in considerazione molti episodi della Seconda Guerra Mondiale temendo il giudizio politico sulla loro adesione al regime fascista.

  

Conclusioni

La condizione di oblio è terminata da alcuni anni e a quei valorosi è stato riconosciuto il giusto merito.

Durante la presidenza di Carlo Azeglio Ciampi, dal 1999 al 2006, venne finalmente attuato un progetto di “patriottismo costituzionale” indirizzato soprattutto alle nuove generazioni. Nelle sue dichiarazioni il presidente della repubblica sosteneva che l’otto settembre 1943 non dovesse venir considerato come la morte della patria. Perché la nazione rinacque nella coscienza di molti italiani che, in quei momenti drammatici, dovettero domandarsi quale posizione sostenere. In primo piano ci furono proprio quei militari che, abbandonati dal governo e dagli stati maggiori, dovettero decidere se accettare l’arruolamento forzato a fianco dei nazisti oppure opporsi  tenacemente.

Il 18 novembre del 2008 i ministri degli Affari Esteri tedesco e italiano annunciarono l’istituzione di una commissione di storici. Volta a un’analisi della seconda guerra mondiale con il fine di contribuire alla creazione di una cultura della memoria comune. Evitando in modo assoluto di giungere a una revisione di interpretazioni storiche comunemente accettate.

Durante i lavori la commissione si sorprese del numero di testimonianze emerse che, fino a quel momento, erano rimaste sconosciute. Una delle cautele della commissione era anche di evitare che venissero formulate delle interpretazioni auto-assolutorie. Pertanto le analisi furono condotte con un autentico spirito di autocritica, senza alcun relativismo storico ma con una limpida ricostruzione dei fatti. La commissione italo-tedesca, innanzitutto, provvide alla rimozione di alcuni miti che non si attenevano alla realtà storica. Tra questi quello che considerava la Wehrmacht (Esercito Tedesco) rispettosa delle leggi di guerra attribuendo la responsabilità delle barbarie esclusivamente alle SS. In Italia, infatti, il fatto che Herbert Kappler e Walter Reder,  gli unici due criminali di guerra tedeschi detenuti nel nostro paese, appartenessero alle SS corroborava tale mito. Invece anche l’esercito tedesco si rese colpevole di gravi crimini. Probabilmente era rassicurante convincersi che gli orribili misfatti perpetrati dai tedeschi potessero ascriversi, esclusivamente, a degli invasati che, aderendo alle SS, avevano dismesso ogni aspetto umano. Mentre era inquietante ammettere che morigerati padri di famiglia oppure giovani studenti, indossata la divisa dell’esercito tedesco, potessero divenire dei bruti disposti a compiere malvagità inenarrabili. Probabilmente il motivo per cui un essere umano, in apparenza mite, possa abbandonarsi ad atti crudeli è qualcosa che difficilmente riusciremo mai a spiegarci. Pertanto siamo atterriti al pensiero che ognuno di noi potrebbe potenzialmente macchiarsi di crimini efferati.

Nel contempo occorreva smitizzare l’espressione “Italiani, brava gente”, la quale intendeva sgravare l’Italia dalle proprie colpe. Mentre, in realtà, per anni era stata complice delle efferatezze compiute dai nazisti e, ancor prima, tremende erano state le rappresaglie compiute dalle truppe coloniali italiane in Libia e in Etiopia.

Concludo l’articolo evidenziando che il trattamento disumano rivolto dai tedeschi nei confronti degli internati militari italiani non deve, assolutamente, concretizzarsi in un atto di accusa verso quel popolo. Il fatto stesso che a propugnare  la causa degli I.M.I. siano stati due storici tedeschi, Gerhard Schreiber e Gabriele Hammermann, dimostra come sia assurdo ergersi dietro uno spirito di rivalsa anti-germanico. Negli anni Trenta la Germania era il centro culturale dell’Europa. Le avanguardie artistiche e letterarie caratterizzavano quella nazione poi i nazisti, facendo leva sull’umiliazione subita a causa della sconfitta nella prima guerra mondiale, riuscirono ad assurgere al potere. Seguirono pertanto anni luttuosi per tutto il mondo. Purtroppo in nessuna nazione vi sono degli anticorpi infallibili, in grado di arginare i politicanti che cercano il successo arringando gli istinti più bassi che albergano in ognuno di noi. Di conseguenza è necessario che ogni cittadino corrobori, tramite la lettura e la riflessione, le difese volte a respingere tali  gravi minacce.

 

 

Bibliografia di riferimento

“Diario Clandestino” di Giovannino Guareschi

“L’ultima partita a carte” di Mario Rigoni Stern

“Gli internati militari italiani in Germania” di Gabriele Hammermann

“Gli internati militari italiani” di Avagliano-Palmieri

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