La ritirata di Russia

La ritirata di Russia

Introduzione

La definizione “Ritirata di Russia” viene comunemente utilizzata per indicare la sventurata campagna di Napoleone Bonaparte del 1812. Ma anche il ripiegamento disperato delle truppe che Adolf Hitler e Benito Mussolini inviarono per invadere l’Unione Sovietica. Per completezza il termine “Ritirata di Russia” dovrebbe indicare anche la campagna militare intrapresa dalle truppe svedesi di Carlo XII che, nel 1709, tentarono di invadere la Russia di Pietro il Grande. Anche loro sottovalutarono la tenacia del popolo russo e le condizioni climatiche estreme andando così incontro a una rovinosa disfatta. Delle tre “Ritirate di Russia” quest’articolo affronta l’ultima confidando che, affidandosi alle lezioni impartite dalla storia, più nessun despota si arrischi nell’inviare centinaia di migliaia di soldati a morire in quelle condizioni atroci.

Ormai da decenni l’epopea degli alpini in Russia è legittimamente ricordata da libri, tra i quali i romanzi di Mario Rigoni Stern, che rievocano la memorabile Ritirata di Russia. Dove, nonostante le gravissime perdite umane, migliaia di uomini giunsero alla salvezza grazie alla vittoria di Nikolajevka. Qualche analista storico-militare ha addirittura espresso il giudizio in base al quale il Corpo Alpino Italiano deve essere considerato imbattuto nella Campagna di Russia. Tale valutazione viene da loro supportata in quanto gli alpini riuscirono a uscire dalla sacca, nella quale li avevano rinchiusi l’Arma Rossa, affrontando una serie di combattimenti e uscendone sempre vittoriosi. In realtà decine di migliaia di soldati non ritornarono più da quelle lande gelide e sarebbe ingiusto non ricordare le loro tragiche sofferenze tentando di millantare vittorie schiaccianti. E’ più corretto raccontare come un’armata mal equipaggiata riuscì a rompere un accerchiamento e a mantenere una coesione che, effettivamente, viene annoverata a mo’ di esempio sui testi di strategia militare.

Mario Rigoni Stern
Mario Rigoni Stern

 

L’inizio della ritirata

Tale vicenda può essere esaminata dal punto di vista storico-militare, ma anche da quello prettamente umano. E’ possibile leggere le pagine intrise di pathos  stilate da alcuni alpini che divennero noti scrittori  permettendo alla loro memoria di ripercorrere quegli episodi tragici. Dove migliaia di soldati, affrontando prove sovraumane, seppero valicare i limiti nei quali si supponeva  la natura  avesse confinato l’essere umano.

Un luogo cruciale è quello di Nikolajevka (attuale Livenka), un villaggio prossimo alle rive del Don, nella Russia sudoccidentale. Qui fu combattuta una delle battaglie più dure e cruente conseguente alla grande offensiva lanciata dall’Armata Rossa il 12 gennaio 1943. Il compito di  garantire la ritirata alla colonna di truppe italiane, a cui si erano aggregati reparti tedeschi e ungheresi, fu assegnato alla Divisione Alpina “Tridentina”. Occorreva conquistare il villaggio di Nikolajevka, tenacemente difeso dai soldati sovietici, in modo da concedere una via di uscita dalla sacca .

 

Considerazioni dei diretti protagonisti

Nel libro “Ritorno sul Don” l’alpino-scrittore Mario Rigoni Stern riferisce che ritornato in quei luoghi, svariati anni dopo, notò che sulle mappe sovietiche Nikolajevka non era segnalata. La gente del luogo indicava quella località riferendosi ai vicini villaggi di Nikitovka e Arnautowo. Dopo aver menzionato un così illustre scrittore è doveroso ricordare altri due alpini, i tenenti Giulio Bedeschi e Nuto Revelli, che donarono pagine dedicate a  quella triste ritirata. Dalle loro opere non trapela mai livore nei confronti degli avversari, come se in quei cruentissimi scontri armati non ci fosse astio reciproco. Ricorda la Krieg ohne Hass (Guerra senza Odio) menzionata dal generale Erwin Rommel a proposito delle guerra sul fronte nordafricano. Eppure sul territorio russo le atrocità furono frequenti, commesse dai soldati dei vari eserciti, sia contro gli avversari sia verso la popolazione civile. Dai reduci di Nikolajevka, invece, si odono le parole di combattenti che lottarono tenacemente contro dei soldati impegnati nel difendere la loro patria.

 

Condizioni della ritirata

Durante la ritirata i reparti alpini si trovarono tra una massa enorme di 70.000 soldati, buona parte dei quali sbandati e ormai privi dell’armamento individuale. Quei disperati si trascinavano sulla steppa innevata attendendo che qualche mulo cadesse morto stremato dal freddo e dalla fatica. Improvvisamente si radunava un crocchio di infelici pronti a strappare dal povero animale dei brandelli di carne. Molto ambita era la lingua in quanto, essendo particolarmente tenera, occorreva poco tempo per cuocerla. Alcuni sbandati, oramai completamente esausti, si afflosciavano sulla neve attendendo che giungesse la cosiddetta “morte bianca” a porre una fine pietosa al loro supplizio. Non erano rari i casi di pazzia repentina. La nostra mente è magnifica e ha delle potenzialità che ancora non conosciamo appieno, ma nel contempo è spaventoso in quale modo la paura e la disperazione possano ridurla.

L’unico baluardo a protezione di quella lunga colonna era rappresentato dagli alpini e da alcuni reparti tedeschi. Mentre proseguiva verso ovest, esposta a una temperatura di 30 – 40 gradi sottozero, le truppe sovietiche cercavano di rinchiuderla in una sacca ingaggiando scontri continui. Molti erano i soldati italiani che riportavano segni di congelamento. Alcuni avevano dovuto liberare i piedi gonfi dagli scarponi per avvolgerli con delle strisce di stoffa ricavate dalle coperte.

Contro le poderose armi sovietiche avevano poco da contrapporre: fucili “modello 1891” e bombe a mano. Gli italiani erano stati mandati in quella guerra dotati con pochi automezzi e scarsi carri armati antiquati. Calzati con degli scarponi che il freddo russo trasformava in morse crudeli, rapide nel martoriare tragicamente i piedi. Avevano richiesto di essere equipaggiati con i “valenki”, i formidabili stivali feltrati russi, ma tale istanza era rimasta drammaticamente lettera morta.

Il fucile “modello 1891” era stato utilizzato dai soldati italiani durante la prima guerra mondiale. In quel conflitto, paragonato con quelli in dotazione negli altri eserciti, non poteva essere reputato tra i migliori ma riusciva comunque a reggere il confronto. Nella seconda guerra mondiale, però, era oramai un semplice fucile a retrocarica manuale che, in Russia, dovette confrontarsi con il PPSh-41 sovietico. Un’arma automatica dotata di un caricatore con la capacità di 71 proiettili. E’ agevole immaginare la marcata differenza tra il soldato italiano che, dopo aver esploso un singolo colpo, doveva ricaricare nuovamente il fucile. Mentre quello sovietico poteva sparare raffiche di decine di colpi. Un altro tipo di raffronto può basarsi sulle date di progettazione: 1891 l’arma italiana;  1941 quella sovietica. Un lasso di tempo di cinquant’anni.

 

La battaglia di Nikolajevka

Nella divisione alpina Tridentina i vari reparti, anche in quei tragici frangenti, seguitavano a mantenere l’ordine inquadrati da una precisa linea di comando. Il generale Luigi Reverberi, sempre risoluto ed energico, comandava la divisione; mentre il generale Giulio Martinat era capo di Stato Maggiore del Corpo d’Armata Alpino. Entrambi si trovavano tra le loro truppe condividendo i tormenti del freddo e della fatica. Si andava dall’alto ufficiale fino all’umile alpino Giuanin che, nei ricordi dello scrittore Mario Rigoni Stern, domandava inquieto: “Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?”. Temendo di non riuscire a ritornare nel paese di montagna da dove la guerra lo aveva rapito. Tra tutti quei combattenti emergeva anche un tenente alto e robusto, completamente disarmato: era il cappellano Don Carlo Gnocchi. Il sacerdote, durante quella tragica ritirata, raccolse le ultime volontà di molti soldati e, al rientro in patria, cominciò un mesto viaggio lungo la penisola per portare conforto ai parenti dei commilitoni caduti. Nel dopoguerra si profuse nell’opera di assistenza agli orfani e ai mutilati, finché un grave male lo rapì a poco più di cinquant’anni. Nel 2009 la Chiesa lo beatificò ascoltando così le voci di tutti quelli che, credenti oppure atei, avevano ammirato le sue straordinarie doti umane.

I sovietici fecero intervenire anche la loro aviazione in modo da mitragliare dall’alto la massa di soldati presenti nella piana innevata. L’unico modo per uscire dalla sacca consisteva nel respingere i reparti dell’Armata Rossa che si erano trincerati nell’abitato di Nikolajevka. Gli alpini, per accrescere il volume di fuoco, inquadrarono come reparti d’assalto anche i conducenti dei muli e il personale addetto all’artiglieria. Il generale Martinat prese un moschetto e si unì agli alpini del battaglione “Edolo”, dove trentadue anni prima era iniziata la sua carriera da ufficiale. Lanciandosi all’attacco gridò: “Ho cominciato con l’Edolo, voglio finire con l’Edolo! Avanti alpini, avanti di là c’è l’Italia, avanti!”. Un proiettile gli stroncò la vita. Il generale Reverberi balzò su un carro armato ed esortò: “Tridentina, avanti!”. Tali parole cominciarono a passare dalle labbra di un alpino all’altro. La sera stava per scendere e se Nikolajevka non fosse stata presa avrebbe significato trascorrere una notte all’addiaccio che, con quelle temperature, equivaleva a morire.

I sovietici travolti da tale valanga d’ audacia si ritirarono da Nikolajevka lasciando che i reparti della Tridentina ne prendessero possesso. La strada verso la salvezza era così stata aperta.

La marcia continuò ancora per cinque giorni, finché la colonna giunse a Schebekino dove ai feriti vennero prestati i necessari soccorsi. Dopo circa un mese, dalla città bielorussa di Gomel, cominciarono a partire le tradotte che riportavano in Italia i superstiti di quell’odissea. Purtroppo all’arrivo in Italia  quegli uomini furono vittima di un vile oltraggio. I finestrini dei treni vennero serrati in modo che nessuno di loro potesse sporgersi ed essere visto. Qualcuno riteneva che quei soldati, con le uniformi lacere e i volti sofferenti, non dovessero venire osservati dalle persone con la mente ancora obnubilata dalla propaganda. Eppure quelle divise logore erano indossate da uomini che con le loro imprese avevano dimostrato coraggio e abnegazione.  Purtroppo nel mondo occidentale, come ha ricordato il poeta-musicista Leonard Cohen, non esiste la cultura del perdente, ma esclusivamente l’esaltazione del vincitore. Eppure è nella sconfitta che si manifesta la gloria dell’uomo. Coloro che avevano impartito l’ordine di celare i superstiti della tragica Ritirata di Russia erano gli stessi che avevano spedito centinaia di migliaia di soldati, in quelle terre remote, senza dotarli dell’equipaggiamento necessario per affrontare temperature e condizioni meteorologiche estreme.

Tragitto della ritirata
Tragitto della ritirata

Conclusioni

Migliaia di soldati che dopo una marcia estenuante di centinaia di chilometri, a 30-40 gradi sottozero, e dopo aver sostenuto una serie di violentissimi combattimenti contro forze soverchianti, attaccano un caposaldo riuscendo a sopraffarlo non può essere meramente interpretato come l’esito della forza indotta dalla disperazione. In questo modo si negherebbe il dovuto rispetto a coloro che combatterono a Nikolajevka e si perderebbe l’opportunità di trarre una lezione da quell’episodio bellico. Una delle motivazioni alla base della vittoria delle truppe alpine fu sicuramente l’essere riuscite a preservare integra la catena di comando. I vari reparti avevano mantenuto le figure gerarchiche di riferimento. Anche in quelli che avevano pagato il maggior tributo di sangue gli ufficiali caduti erano stati sostituiti da compagni d’armi di grado inferiore. Nei pressi di Nikolajevka una massa informe di sbandati attendeva che gli alpini aprissero loro la strada verso la salvezza. La maggior parte degli sbandati aveva abbandonato l’armamento individuale e non aveva più una linea di comando alla quale riferirsi.

Già gli antichi romani erano consapevoli di quanto fosse importante per un esercito il mantenimento dell’ordine e della disciplina. Le loro legioni si muovevano con una precisione millimetrica e ogni soldato conosceva a chi dover fare riferimento. Le poche sconfitte subite avvennero, nella maggior parte dei casi, quando le truppe non riuscirono a schierarsi nell’ordine di battaglia. A Teutoburgo, nell’anno 9 d.C., i germani batterono le legioni romane perché quest’ultime, nel buio di quelle foreste intricate, non riuscirono a schierarsi a ranghi serrati. Nel caos che si era creato ogni gruppetto di soldati combatteva in autonomia senza obbedire a un ordine preciso.

I reparti della divisione alpina Tridentina, nel gennaio del 1943, seppero mantenersi uniti. E a costo di immani sacrifici  riuscirono ad aprire tra le file avversarie il varco che significò la salvezza per decine di migliaia di soldati. Le ragioni di una tale coesione sono da ascriversi all’ascendente esercitato dai propri quadri ufficiali e sottufficiali sui soldati. Ad alcune figure carismatiche come quella del generale Reverberi e a un sentito spirito di corpo che tenne uniti gli alpini.

In queste poche righe ho cercato di esporre l’episodio saliente della Ritirata di Russia: la battaglia di Nikolajevka. In quelle ore da entrambi i lati del fronte si trovarono, gli uni contro gli altri, soldati che si assomigliavano moltissimo. Le truppe dell’Armata Rossa erano in gran parte costituite da contadini, refrattari alla propaganda stalinista, che combattevano tenacemente per ricacciare gli invasori della loro terra. Gli alpini venivano arruolati tra i montanari e i contadini, insensibili alla retorica fascista lottavano per l’onore dei reparti nei quali militavano. Esemplificativo un episodio citato da Mario Rigoni Stern nel libro “Il sergente nella neve”. Il sergente maggiore vede, a pochi metri, un gruppo di soldati russi aggrappati a un carro armato in corsa e osservando i loro volti nota che hanno lineamenti pacifici e bonari, non dissimili da quelli dei suoi commilitoni.

Non lontano da Nikolajevka, precisamente nella località di Rossoch, oggigiorno esiste un museo dedicato alle truppe alpine che combatterono in quelle sconfinate pianure. Il fondatore e curatore del museo è lo storico russo Alim Jakovlevič Morozov. Il professor Morozov, durante la seconda guerra mondiale, era un bambino ed ebbe modo di fare amicizia con quei soldati con la penna sul cappello che provenivano da molto lontano per invadere il suo paese. Da adulto ha voluto dedicare loro un museo mentre l’Associazione Nazionale Alpini, negli anni Novanta, ha provveduto a costruire un asilo nella città di Rossoch. Un ottimo modo per suggellare l’amicizia tra i due popoli che, quasi ottanta anni fa, le decisioni sciagurate di dittatori spietati determinarono che si trovassero in guerra uno contro l’altro. Concludo l’articolo indicando il link al museo curato dal professor Morozov:   http://www.donitalia.org/AlimMorozov1.html

 

Bibliografia di riferimento

“Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern

“Ritorno sul Don” di Mario Rigoni Stern

“Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi

“La strada del davai” di Nuto Revelli

“La guerra dei poveri” di Nuto Revelli

 

 

2 Risposte a “La ritirata di Russia”

  1. mi piacerebbe sapere come è stato trattato il gen Reverberi al ritorno in patria. Potete scrivere qualcosa ?

    1. Purtroppo, le traversie del generale Reverberi non terminarono con la Ritirata di Russia. Dopo l’8 settembre del 1943 venne internato in un lager tedesco. Dichiarò di voler aderire alla Repubblica Sociale di Mussolini e così venne liberato. Ma quando i tedeschi scoprirono che stava prendendo contatti con la resistenza venne nuovamente internato. Finita la guerra venne epurato dall’esercito perché ritenuto uno dei militari che avevano combattuto nella guerra fascista. Onestamente considero tale accusa molto discutibile.

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