“Mancò la fortuna non il valore”; il mancato riconoscimento dello spirito di sacrificio di molti soldati italiani durante la Seconda Guerra Mondiale

Mancò la fortuna non il valore
Mancò la fortuna non il valore

 

 

 

 

Introduzione

“Mancò la fortuna non il valore”. Questa epigrafe appare su una targa di marmo non lontano dalla località egiziana di El Alamein. Teatro, durante la Seconda Guerra Mondiale, di  cruenti scontri tra le armate britanniche e italo-tedesche. Quelle parole potrebbero riassumere la condizione nella quale si trovarono a operare le forze armate italiane nel secondo conflitto. Uno spirito di sacrificio smisurato ed eroici atti di valore vanificati da scelte politiche e strategiche sciagurate. Intere divisioni, come a El Alamein e a Nikolajevka, si immolarono per  garantire al resto dell’armata una ritirata meno tragica. Migliaia di soldati continuarono a combattere in battaglie inevitabilmente perse per salvaguardare il loro onore militare. Il valore assolutamente non mancò ma, volendo essere realisti, non sarebbe bastata neanche una sorte propizia a modificare l’esito di quelle battaglie.

Troppo gravi erano le carenze negli armamenti e nel sistema logistico degli approvvigionamenti. Un paese di 40 milioni di abitanti, con un’economia basata quasi esclusivamente su un’agricoltura arretrata, aveva dichiarato guerra alle maggiori potenze militari di quell’epoca (Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna, Francia). Decisione sconsiderata di un dittatore vanaglorioso: Benito Mussolini. Non volle ascoltare quei pochi generali che avevano avuto il coraggio di avvertirlo della gravità di una tale scelta. Pronto ad allearsi con un tiranno megalomane, Adolf Hitler, disposto a qualsiasi ferocia nel nome di una ideologia fanatica.

 

Nuovo approccio storico

In questi ultimi anni si stanno rianalizzando quei fatti militari con una metodica scrupolosa. Un esempio di tale nuovo approccio lo ha dato il professore Alessandro Barbero nella sua ricerca dedicata alla battaglia di Caporetto, nella Prima Guerra Mondiale. Il professore Barbero, probabilmente uno dei maggiori storici contemporanei, ha superato il modo di operare di alcuni storici del passato. I quali si limitavano a descrivere un avvenimento in base ad alcune illazioni. Senza quell’immane lavoro di ricerca e di consultazione di fonti che è invece indispensabile affinché un fatto passi i vagli della Storia. Il professore Alessandro Barbero, in una sua recente opera, ha dimostrato come sia assolutamente un “falso storico” che, durante la battaglia di Caporetto, i soldati italiani fuggirono vigliaccamente oppure si arresero di proposito agli austro-tedeschi. In quella battaglia, in realtà, gli italiani vennero sconfitti dall’audacia e dall’organizzazione minuziosa degli avversari. Ma combatterono valorosamente anche quando ormai era chiaro che l’esito della battaglia era scontato, però occorreva comunque preservare l’onore militare. Terminata la battaglia centinaia di migliaia di soldati, ormai isolati, caddero prigionieri. Mentre altri si ritirarono velocemente verso occidente in modo da rinforzare la linea di difesa che si stava predisponendo sul fiume Piave. Proprio sul Piave bloccarono l’avanzata austro-tedesca e, dopo circa un anno, contrattaccando vinsero la guerra.

Purtroppo, per molti decenni, si è scritto di interi reparti che scappavano senza combattere, oppure abbracciavano gli avversari implorandoli di prendere loro prigionieri.  I generali, responsabili di quella zona del fronte, avevano avvalorato tali gravi affermazioni in modo da autoassolversi dai loro gravi errori strategici. Non avevano rinforzato a sufficienza quell’area nonostante il Servizio Informazioni li avesse avvertiti dell’attacco imminente. Invece di analizzare le conseguenze di tale grave errore preferirono asserire che la sconfitta fosse dovuta alla codardia dei soldati. Anni dopo, nel periodo fascista, tali calunnie nei confronti delle truppe vennero ulteriormente rinvigorite. Si sosteneva che i soldati, ormai confusi dalla propaganda contro la guerra condotta dai socialisti, avessero ceduto volontariamente di fronte al nemico.

 

Falsi storici

Queste gravi maldicenze sul comportamento dei soldati durante la battaglia di Caporetto è solamente uno dei tanti “falsi storici” che ancora trovano spazio su alcuni libri.  Ve ne sono di altri particolarmente curiosi:

  • le cinture di castità. In realtà non sono mai esistite. Per quanto nei secoli passati la condizione delle donne fosse pessima non si giunse all’aberrazione di imporre loro l’utilizzo di tale strumento. Affinché la fedeltà coniugale venisse preservata. Le cinture di castità, ancora esposte in alcuni musei, sono in realtà state fabbricate ad hoc per essere presentate al pubblico sprovveduto.
  • “Ius primae noctis”. Per molti anni si è scritto che, nel Medioevo, quando una ragazza si sposava avesse l’obbligo di trascorrere la prima notte di nozze nel letto del feudatario. Un altro falso. In realtà il “Ius primae noctis” consisteva nel fatto che quando un uomo sposava una donna residente in un altro feudo doveva pagare una tassa a quel feudatario.
  • Paura della fine del mondo in corrispondenza dell’anno Mille. In realtà, consultando i documenti relativi a quel periodo, si nota che non vi era affatto tale timore.

 

Gravi carenze nell’armamento

Torniamo a quello che intende essere l’argomento principale di questo articolo. La partecipazione dell’Italia alla Seconda Guerra Mondiale.

Nel giugno del 1940 l’Italia entrò in quel conflitto praticamente disarmata. I soldati italiani disponevano di fucili costruiti su un modello del 1891. Nemmeno sufficienti per tutti. Una parte delle artiglierie era costituita da cannoni e obici che, come preda bellica, l’Italia aveva requisito all’Austria alla fine della Prima Guerra Mondiale. Gli autocarri erano drasticamente scarsi. Vennero addirittura requisiti quelli che erano utilizzati dai cittadini privati per rifornire di alcolici i bar. Purtroppo non ho più ritrovato la fotografia, ma in rete c’era un’immagine di due camion con la scritta “Peroni” utilizzati durante la Campagna di Russia. Gli aeroplani erano antiquati e non erano assolutamente in grado di competere con quelli delle altre nazioni.

L’Italia era un paese privo di un apparato industriale moderno, pertanto era impossibile dotare le forze armate con armamenti efficaci. Affinché l’Italia divenisse una potenza industriale occorreva attendere il boom economico degli Anni Cinquanta.

Durante la Seconda Guerra Mondiale l’Italia era una nazione che disponeva di forze armate che dovevano far affidamento sull’ardimento e sull’audacia dei singoli. Prive di armamenti moderni e guidate da degli Stati Maggiori dove sedevano alti ufficiali che ricoprivano quel ruolo non per indubbie capacità strategiche. Ma per la fedeltà dimostrata nei confronti del Partito Fascista oppure al sovrano. In molti casi i soldati erano “dei leoni guidati da degli asini”. Questa definizione è stata utilizzata in diverse epoche storiche, e su diversi fronti, pertanto svariati giornalisti e storici ne hanno rivendicato la paternità. Probabilmente è ispirata all’antico proverbio arabo: “Un esercito di cervi guidato da un leone è in grado di sconfiggere un esercito di leoni guidato da un cervo”

 

Valore negato

Nel secondo conflitto mondiale furono molti i casi in cui i soldati italiani dettero prova del loro valore. Considerando la psicologia tipica dell’italiano suppongo che difficilmente le motivazioni di tale audacia fossero dovuti a un’animosità ideologica oppure ad acceso spirito nazionalista. Ritengo che lo sprone fosse da ricercare nel senso del dovere e dell’appartenenza a una organizzazione, quali le forze armate, nei cui confronti ormai condividevano esperienze comuni.

In un altro articolo del mio blog, “La ritirata di Russia” , ho raccontato dell’eroica impresa della divisione Tridentina. Nella battaglia di Nikolajevka si immolò per permettere al resto del corpo di spedizione italiano di uscire dalla sacca dove i sovietici erano riusciti a chiuderlo.

Adesso vorrei spostarmi a un’altra latitudine, e in tutt’altro clima, per citare alcuni episodi della battaglia che si svolse dal 23 ottobre al 3 novembre del 1942 nella località egiziana di El Alamein.

In quella battaglia le truppe del Commonwealth britannico, comandate dal generale Bernard Montgomery, sbaragliano le divisioni italo-tedesche guidate da Erwin Rommel.  Le differenze tra le forze dei due schieramenti erano schiaccianti. Oltre alla numerosità più che doppia come soldati e carri armati, i britannici avevano una qualità dell’armamento, di provenienza americana, eccellente. I tank Sherman e Grant a loro disposizione erano praticamente inattaccabili dalle armi controcarro a disposizione degli italo tedeschi.  Inoltre i britannici avevano il dominio assoluto dei cieli. Le linee di rifornimento permettevano ai britannici di far giungere in prima linea enormi quantità di viveri, munizioni e carburante. Mentre per gli italo-tedeschi era drammatica la mancanza di carburante e di viveri. I soldati di molte unità italiane ricevevano una razione di mezzo litro d’acqua al giorno. Doveva essere sufficiente per affrontare temperature che si innalzavano fino ai 45 gradi. Alcuni reduci raccontarono di soldati che, andati fuori di senno per l’eccessiva sete, bucarono i radiatori dei camion per bervi l’acqua insalubre contenuta.

I dettagli della battaglia sono esposti in modo minuzioso su wikipedia. Nella restante parte di questo articolo intendo, invece,  ricordare le tre divisioni che si immolarono a El-Alamein per rallentare l’avanzata britannica: Folgore, Ariete, Littorio.

Folgore

 

Folgore
Folgore

 

I paracadutisti della Folgore dovettero affrontare l’attacco di tre divisioni britanniche. Pur essendo praticamente privi di armi controcarro  efficaci riuscirono comunque a resistere 10 giorni. Assaltando i tank britannici con delle bombe artigianali costituite da benzina e con delle mine. Un ufficiale inglese dichiarò: “Credevamo di doverci battere contro degli uomini, per quanto famosi, e ci siamo urtati contro dei macigni”.

Quando cominciarono il ripiegamento i britannici offrirono loro la resa ma i soldati si rifiutarono e risposero con il leggendario grido: “FOLGORE”. Marciarono per due giorni nel deserto respingendo ogni attacco finché, esaurite le munizioni, distrussero le armi in modo che non cadessero nelle mani dell’avversario. Infine dovettero per forza arrendersi, ma rifiutarono di esporre la bandiera bianca e di alzare le mani. Dei 5000 effettivi iniziali erano rimasti solo più in 304.

Nei giorni seguenti il premier britannico Winston Churchill, riferendo in parlamento della vittoria sugli italo-tedeschi, dichiarò: “Dobbiamo davvero inchinarci davanti ai resti di quelli che furono i leoni della Folgore”

 

Ariete

Folgore
Ariete

 

 

La divisione corazzata Ariete era munita con carri armati antiquati e di piccolo tonnellaggio. Eppure affrontò i tank britannici sacrificandosi interamente. Passò alla storia l’ultimo radiomessaggio trasmesso dall’ultimo carro armato della divisione Ariete: “Carri nemici fatta irruzione sud Divisione Ariete. Con ciò Ariete accerchiata. Trovasi circa 5 chilometri nord-ovest Bir el Abd. Carri Ariete combattono!”

Il maresciallo Erwin Rommel scriverà nel suo libro di memorie “In guerra senza odio”: “con l′Ariete perdemmo il nostro più vecchio camerata italiano dal quale, bisogna riconoscerlo, avevamo sempre preteso più di quanto fosse in grado di dare con il suo cattivo armamento. “

 

Littorio

Littorio
Littorio

 

 

A sacrificarsi completamente fu anche la Divisione Corazzata Littorio. Ingiustamente viene di rado ricordata perché il suo nome è legato al fascismo. In quanto il fascio littorio era uno dei simboli fascisti per eccellenza. Un grave torto non ricordare il valore e l’audacia di quei soldati solamente perché inquadrati in una divisione che riportava un nome legato a un’ideologia esecrabile.

 

Conclusioni

In queste righe ho inteso evidenziare come sia stato ingiusto non riconoscere il merito a quei soldati valorosi. Ma per decenni  sia stato permesso che venisse avvalorata la tesi in base alla quale, durante la Seconda Guerra Mondiale, i militari italiani abbiano affrontato il conflitto da pusillanimi. Un’infinità di immagini rappresentano colonne di soldati disarmati che si avviano verso i campi di prigionia. Purtroppo per anni le didascalie hanno evitato di precisare che quei volti sfiniti e le divise lacere appartenevano a soldati che avevano combattuto, utilizzando gli armamenti antiquati di cui disponevano, fino all’esaurimento di ogni risorsa. Correttamente l’attuale approccio seguito da molti storici sta attribuendo loro l’onore che era stato negato.

 

Bibliografia di riferimento

 

“Caporetto” di Alessandro Barbero

“El Alamein” di Cecil Ernest

“El Alamein. Sabbia d’intorno roccia nel cuore.” di Francesco Fagnani

 

Una risposta a ““Mancò la fortuna non il valore”; il mancato riconoscimento dello spirito di sacrificio di molti soldati italiani durante la Seconda Guerra Mondiale”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.